Protezione e Accoglienza

Accoglienza e fiducia: la testimonianza di Elia

Elia, educatore al Villaggio SOS di Saronno, ha partecipato alla stesura del libro "In questo mondo storto" edito da il Mulino, scrivendo il racconto dal titolo "Ci sono". In questa testimonianza, ci racconta la sua esperienza di educatore e le emozioni che ogni giorno prova nel suo lavoro.

Inizialmente non pensavo di partecipare alla stesura di questo libro, poi ci ho ripensato un po’ spinto da Miro, allora Direttore del Villaggio SOS e super entusiasta per il progetto. Quando mi sono messo davanti alla pagina bianca la storia è venuta fuori spontaneamente. Lavoravo già qui al Villaggio SOS da 4 anni, ma ero volontario da molti di più, quindi ci è finita dentro tutta la “mia vita” nel Villaggio SOS, quello che succede nelle case, la quotidianità, dal mio punto di vista e non solo.

Il primo passo infatti, è stato raccontare la storia dal mio punto di vista… poi ho provato a immedesimarmi nel bambino. Lo conoscevo bene quindi qualcosina di ciò che gli passava per la testa riuscivo a immaginarlo. Senza dubbio è stato più immediato descrivere le mie sensazioni, ma l’episodio iniziale - nel quale lui mi dice “Tu per me sei come un papà” - era fresco di qualche giorno ed è per quello che la pagina bianca si è riempita in fretta.

Era arrivato al Villaggio SOS quando era molto piccolo e tra noi si è subito istaurato un legame molto forte. Con lui il discorso dell’importanza del ruolo, della presenza è stato più intenso che con altri bambini.

Avere consapevolezza del ruolo che rivestiamo in questo lavoro è fondamentale, perché i bambini e ragazzi che accogliamo si affidano, anche con molta difficoltà a volte. È necessario mantenere continuamente un equilibrio tra l’intensità del legame e la consapevolezza che siamo qui per il loro benessere, che sottintende tante cose diverse: tra queste anche il prendere decisioni molto difficili non solo da vivere ma da far capire nel loro valore e senso. Ad esempio, se l’affido è la soluzione migliore per il superiore interesse di quel bambino, non deve prevalere il mio desiderio di continuare a esserci per lui. La difficoltà sta proprio nel mantenere l’equilibrio tra il prendersi cura e il tenere sempre in mente qual è il loro migliore interesse.

Io sono diventato volontario al Villaggio SOS quando ero ancora universitario. La modalità di ingresso è stata ordinaria: abitavo a Saronno, cercavo un posto dove dare una mano e il Villaggio SOS sembrava avere tutti i requisiti. Meno ordinario, almeno credo, è ciò che mi ha fatto restare e mi fa restare qui. Il Villaggio SOS è diventata una seconda casa, come per i bambini e i ragazzi che sono accolti. Il legame con il luogo, le persone che lo vivono, che lo hanno vissuto non è proprio facile da spiegare. Penso che il Villaggio SOS sia un posto che naturalmente accoglie. Io mi sono sentito accolto, tanti bambini e ragazzi, famiglie, educatori, volontari, si sono sentiti accolti e questo vissuto è così forte che alla fine ti assorbe e ne diventi parte tu stesso. Questo legame così intenso è radicato nell’accoglienza che ti lega e ti fa crescere, che ti porta a tua volta a essere accogliente.

Se tu sei qui al Villaggio SOS io so che mi posso fidare” ecco come lo descriverei. Un circolo virtuoso che da 30 anni si alimenta di questo senso profondo di accoglienza e fiducia. Tanto che se dovessi vedermi tra 10 anni, mi vedrei ancora qui al Villaggio SOS.

Se dovessi spiegare a un bambino cosa facciamo qui al Villaggio SOS direi: “Qui accogliamo dei bambini, dei ragazzi, delle mamme, che hanno bisogno di fare un pezzetto di strada insieme a noi perché, per motivi diversi, non possono farlo insieme alla loro famiglia. Noi, con gli strumenti e le forze che abbiamo, li aiutiamo il più possibile, li curiamo e costruiamo insieme a loro un cammino perché possano tornare nelle loro case, oppure perché diventino grandi e siano capaci di vivere in autonomia.”

Se qualcuno mi dicesse che vuole venire a lavorare al Villaggio SOS gli direi che è uno dei lavori più difficili e impegnativi che conosco, ma è un lavoro assolutamente unico, come unico è ogni bambino, ragazzo, genitore. Sono richieste competenze tecniche, fondamentali, ma ancor di più competenze di cuore. Innanzitutto verso le persone che accogliamo e seguiamo, ma non solo: ci chiamiamo Villaggio SOS, nessuno qui è un’isola a sé stante.

Penso che questa sia stata l’intuizione incredibile di Gmeiner: il Villaggio SOS è comunità nel vero senso della parola, in cui tutti si prendono cura di tutti. Questo è senz’altro un nostro punto di forza, perché significa che chi svolge il suo servizio qui non è mai lasciato da solo.

Gli educatori sono le colonne portanti e fanno un mestiere faticoso fisicamente, ancor più psicologicamente. È difficile, perché non trattiamo con le formule, con pezzi di legno... ma con persone e storie e bisogna usare delicatezza, sensibilità, serenità, precisione, discrezione insieme a tutta la nostra umanità, ma facendo i conti costantemente anche con la stanchezza, l’imperfezione e il fallimento.

Interveniamo in dinamiche complessissime e quando c’è anche un piccolo risultato il senso che ti restituisce è immenso. Ci vuole cuore, cura, presenza, ascolto, il pensiero per l’altro, anche quando l’altro non lo vuole, non ti vuole, non vuole niente e nessuno. È un percorso nel quale tutti cresciamo, impariamo reciprocamente. Questo porta a costruire dei legami che non si rompono mai. Tanti bambini e ragazzi ormai grandi, dopo anni e anni che escono dal Villaggio SOS tornano qui o ci vediamo per una pizza, ci sentiamo per consigli… 

A costo di sembrare scontato, è un lavoro che ti impegna tanto, ma che ti restituisce molto di più. Penso che pochi altri lavori siano in grado di darti la stessa pienezza e gratificazione di quando senti di aver fatto qualcosa di buono per un bambino, una mamma, un ragazzo.


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