Fariha ha 18 anni e ora è una ragazza serena, ma quando arrivò al centro psico-sociale di SOS Villaggi dei Bambini in Darfur, non parlava con nessuno a causa dei gravi traumi subiti durante la guerra civile.
Il centro SOS, operativo dalla fine del 2004 in Sudan presso il Campo rifugiati di Abu Shok, nella periferia di Al-Fashir nel nord della regione, è uno dei tre operativi nel campo profughi.
Insieme costituiscono il programma di emergenza che SOS ha attivato nella zona per soccorrere centinaia di bambini e donne vittime del conflitto tra gli 80.000 presenti nel campo, compresi i minori che hanno fatto l’esperienza della guerra come piccoli bambini soldato.
Fariha è stata la prima ragazza ad entrare al centro psico-sociale di SOS Villaggi dei Bambini in Darfur ed il suo caso si presentò da subito come uno dei più difficili da risolvere per il personale dell’associazione. La convinzione è che sia stata una bambina soldato.
Fariha non parlava proprio a causa delle atrocità a cui era stata costretta ad assistere nel corso della guerra. Suo padre era stato assassinato proprio davanti ai suoi occhi.
L’atteggiamento di Fariha era molto aggressivo nei confronti degli altri bambini; li aspettava al di fuori della scuola del campo e appena passavano davanti a lei li picchiava oppure si sedeva all’entrata del campo e spaventava i compagni.
Il suo comportamento violento le impediva di inserirsi nel gruppo; gli altri bambini la temevano e si prendevano gioco di lei isolandola. "Mi sono seduta vicino a lei e sono stata zitta e ferma ad aspettare”, affermò la dottoressa Jihad Madany, psicologa e responsabile del centro, "non potevo fare altro che aspettare che acquisisse fiducia in me come è stato; piano piano sono riuscita a farle fare dei disegni e a comunicare facendomi ascoltare prima di tutto".
I ragazzi vivevano, come tutti gli altri rifugiati all’interno del campo, in una piccola baracca di fango. Lentamente Fariha si fidò dei collaboratori di SOS che la stavano aiutando, iniziò a comunicare ma la cosa più difficile per lei fu di riallacciare i rapporti con i suoi coetanei ed essere da loro accettata.
“Iniziai a parlare di Fariha con gli altri bambini, cercando di far capire loro quello che stava succedendo e che lei era una bambina normale che a differenza di loro, non riusciva ad esprimersi” raccontò Jihad. Giorno dopo giorno la situazione di Fariha migliorò e finalmente insieme all’uso della parola, ha riconquistato i rapporti con gli altri ragazzi della sua età.